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Ad oggi nella storia della ‘ndrangheta si contano centinaia di vittime innocenti. Persone che, molto spesso, vengono uccise non solo dal piombo o dalle bombe dei mafiosi, ma anche nel momento in cui i loro volti e le loro storie vengono consegnati all’oblio.
È il caso ad esempio di Demetrio Quattrone e di Nino Polifroni, entrambi calabresi vittime della ‘ndrangheta negli anni 90.
Quattrone, 42 anni, era un ingegnere reggino, ispettore del lavoro con il compito di controllare i cantieri nonché consulente tecnico presso i tribunali di Reggio, Palmi e Locri. Fu ucciso a colpi di pistola la sera del 28 settembre 1991 a Villa San Giuseppe, nella zona nord di Reggio Calabria, mentre era in auto con un suo amico, il medico Nicola Soverino, anch’egli ucciso in quella tragica serata. Inizialmente la loro morte desta scalpore: i colleghi di Demetrio, in segno di protesta, per un settimana non andranno a controllare cantieri; il 6 ottobre del ‘91, 40mila persone provenienti da tutta Italia, dopo la marcia della pace di Assisi, si riverseranno nella città dello Stretto. Poi, il silenzio. E ad oggi il duplice omicidio rimane senza colpevoli, né un movente certo.
Polifroni, 49 anni, era un imprenditore edile di Varapodio. Le prime minacce arrivano nel ‘74 e da allora si intensificheranno sempre più. Richieste di denaro, telefonate anonime, spari a porte e finestre di case. Ma Nino non si piegherà mai al volere dei mafiosi. Neanche quando, nel ‘92, rischia la vita in un attentato a colpi di fucile. Nel ‘96, la ndrangheta cambia strategia: niente più minacce o richieste dirette, ma la coercizione: gli vengono imposti determinati fornitori, legati agli ambienti mafiosi. Anche stavolta, Nino non abbassa la testa e il 30 settembre di quello stesso anno viene ucciso. La sua impresa è oggi gestita dai suoi figli, che, tra mille difficoltà, cercano di ricalcare le orme del padre. E nel contempo tentano di mantenerne viva la memoria, attraverso un concorso scolastico, per le scuole primaria e secondaria di Varapodio, a lui intitolato.
Queste sono solo due delle tante storie dei morti dimenticati; morti che non godono della memoria di cui sono degni e che, caduti nell’oblio, rischiano di vedere vanificato il loro estremo sacrificio.
Di queste storie se ne è parlato nella trasmissione “I fatti in diretta”, in onda su LaC, canale 19 del digitale terrestre. Ospiti in studio: Sabrina Garofalo dell’associazione Libera Cosenza, Alessio Magro dell’archivio Stop ‘ndrangheta e Patricia Dao, giornalista e scrittrice.

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